Mobirise

Il libro

Condannato all’ergastolo per duplice omicidio, non ha mai confessato. Non può, non ricorda nulla. Non solo di quella notte, ma del suo passato.

Dopo dieci anni, scoperti i veri assassini lo riabilitano. 

Scopre di essere rimasto solo.

Tornato nella sua città, rivedendo i luoghi dov’è cresciuto, iniziano a riaffiorare i ricordi. Dei suoi primi tredici anni di vita, quando era felice, aveva una splendida famiglia e un padre che lo adorava. Dopo, il buio. Non capisce il perché, ma cerca di ricominciare. Da zero.
L’incontro con un vecchio amico del padre, gli fa scoprire parte della verità. Il padre in fuga. Lui che si nasconde in auto per seguirlo. Un terribile incidente che lo lascia in coma irreversibile, secondo i medici. Ma la cosa che non riesce ad accettare è che il padre l’ha lasciato in ospedale, al suo destino. Non ci crede, non per quanto ricorda gli volesse bene. Vuole trovarlo, deve! Ha bisogno di scoprire perché l’ha abbandonato. Pensa, spera, che in quei diciotto anni di buio totale ci sia la risposta.
La sua ricerca lo porta in Germania, in Cina, in Africa. Alla fine… si rende conto che non scoprire la verità sarebbe stato meglio!

Prologo

Per anni mi sono immaginato libero. Pensiero, credo, comune a chiunque debba scontare una condanna, anche se nel mio caso è più complicato immaginare un futuro oltre quelle mura.

La differenza sostanziale fra ciò che mi aspetto io e ciò che sognano tutti gli altri sta nel fatto che non ho la minima idea di come sia il mondo lì fuori. Non ricordo nulla del mio passato!

Certo, in carcere c’è la televisione, ti raccontano, ma alla fine, cosa troverò là fuori? Il desiderio di uscire, quindi, è concentrato nella speranza di riuscire a ricordare il mio passato.

Convinzione che, quando mi hanno comunicato l’imminente scarcerazione, si è trasformata in panico.

Paura di ciò che avrei fatto là fuori, perché mentre gli altri detenuti potevano tornare dai propri cari, dagli amici… il mio mondo era tutto lì, rinchiuso fra quelle mura. I miei amici, la mia famiglia erano loro!

La mattina dell’ora X, o meglio del giorno zero, quando mi riconsegnarono le mie cose mi diedero anche una lettera, che riposi nella tasca interna della sacca senza leggerla.

All’apertura del portone iniziai a piangere. Pregai i secondini di poter rimanere. Mi sentivo perso, impaurito. In fondo lì ero al sicuro, mangiavo, avevo un posto dove dormire… ora? 

Mi dovettero buttare fuori, letteralmente a forza. Quando si richiuse il portone, iniziò a girarmi tutto intorno, ero come paralizzato. Al posto delle gambe sembrava avessi enormi blocchi di cemento. Riuscii a muovere i primi passi solo dopo non so quanto tempo. 

M’incamminai a fatica e solo passando davanti al cimitero mi si sciolsero i muscoli e aumentai l’andatura. Seguendo la strada mi ritrovai in città. La sensazione di vuoto, le lacrime che non riuscivo a controllare, mi fecero tornare alla mente un bambino che fecero vedere in televisione. Si era perso, piangeva e nonostante tutte le persone che tentavano di rincuorarlo, continuava a chiamare la madre.

Cercai di fermare una persona, poi un’altra e un’altra ancora. Tutti scappavano appena mi dirigevo in loro direzione. Quando un vecchietto, vedendomi piangere addossato a un muro mi si avvicinò… ecco scoperto il mistero. Il giorno prima era stata data dai giornali locali la notizia della mia scarcerazione. Scappavano perché mi riconoscevano! E anche se era stata dimostrata la mia innocenza… io per loro ero comunque ancora il “mostro” che aveva trucidato nel sonno due persone conosciute e perbene.

In carcere avevo raccolto tutti gli articoli che riguardavano il mio caso, e a parte i primi giorni in cui urlavo la mia innocenza – sì, ricordavo nulla, ma sapevo di non aver commesso ciò che mi attribuivano – mi ero rassegnato all’evidenza. E per un periodo anche io mi sono considerato un “mostro”, salvo pian piano riuscire a far cambiare idea a tutti lì in carcere. E infatti mi volevano tutti bene, dal direttore all’ultimo detenuto.

Iniziai a vagabondare per le strade, a dormire dove capitava, non mangiai per tre giorni perché nessuno voleva entrassi nel suo negozio o ristorante. 

Solo il parroco mi trattò da essere umano, accogliendomi per un paio di notti e dandomi del cibo. Mi consigliò di andare via da quel posto e andò a comprare un po’ di provviste. Anche se volevo dimostrare a quella gente che sbagliava, decisi di andarmene. 

Dopo giorni di cammino giunsi a Novara, dove mi fermai tre settimane. Almeno lì quasi nessuno mi riconosceva. Trovai anche un posto dove dormire, e i soldi che avevo guadagnato in carcere mi permisero di sopravvivere per due settimane. La terza la passai per strada.

Solo arrivato allo stremo, rovistando nella sacca in cerca di qualche spicciolo per comprare da mangiare, trovai quella famosa busta. 

Quando la aprii e trovai dei soldi, per la prima volta dopo settimane sorrisi. La lessi. Il mittente era uno studio notarile di un certo dottor Arciboldi e conteneva appunto soldi, un biglietto del treno e una lettera in cui spiegava che ero destinatario dell’eredità di una mia zia, e come arrivare al suo studio.

Ci misi un mese prima di decidere di andare da lui.